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Il Belpaese con “l’acqua alla gola”***

Il rischio idrogeologico è dovuto a cause naturali o indotte?

10/03/2013

Simona Mingolla

Seppur il dissesto idrogeologico sia un eterno allarme che da Nord a Sud suona puntuale quando il maltempo si affaccia sulla nostra Penisola, questo problema viene continuamente ignorato e sottovalutato, con la conseguenza di dover poi assistere impotenti a gravi disastri idrogeologici.

Negli ultimi anni si sono susseguiti Forum, convegni, operazioni di rilevamento dati al fine di conoscere meglio il problema e prospettarne possibili soluzioni che alla fine possono racchiudersi in un’unica “formula”: abbandonare la politica degli “interventi post-disastro” per passare alla prevenzione lavorando sul come intervenire sulle cause del suddetto dissesto. Secondo il recente bilancio di Legambiente è stato stanziato un miliardo di euro in 3 anni per sanare le emergenze, mentre per la prevenzione sono stati erogati solo 2 miliardi di euro in 10 anni! 
Se rileggiamo il rapporto “Pianificazione territoriale e rischio idrogeologico” redatto dal ministero dell’Ambiente nel lontano 2003 (l’ultimo disponibile): “la stima del fabbisogno finanziario complessivo per la sistemazione dei bacini per oltre 11.402 interventi di messa in sicurezza del territorio già individuati ammonta a 33.428 milioni di euro“.

Il problema, oltretutto, non è marginale o occasionale: infatti, negli ultimi 50 anni in Italia si sono verificate 470.000 frane, che hanno causato 6 vittime ogni mese, 3.500 morti in tutto. “Illuminanti” i dati del Rapporto Ance-Cresme (Associazione nazionale costruttori edili – Centro ricerche economiche, sociologiche e di mercato) su “Lo Stato del territorio 2012” che mette in relazione lo sviluppo insediativo del Paese, in termini di popolazione e stock edilizio, con le mappe del rischio sismico e del rischio idrogeologico.

L’analisi ha evidenziato i nodi della pianificazione e della manutenzione del territorio, sottolineando l’ingente spesa statale che, dal dopoguerra ad oggi, il nostro Paese ha sostenuto dopo i tragici eventi calamitosi, sismici ed idrogeologici. 
Nello studio, inoltre, sono stati stimati i rischi per il patrimonio edilizio strategico, come scuole e ospedali, e per quello destinato alle attività produttive. In particolare, emerge che in Italia le zone a elevata esposizione al rischio idrogeologico rappresentano il 10% del territorio, riguardano l’82% dei Comuni e coinvolgono potenzialmente 5,8 milioni di abitanti. Tra le Regioni più a rischio ci sono l’Emilia Romagna con 4.316 kmq a rischio, pari al 19,5% del territorio regionale, seguita dalla Campania (19,1%), dal Molise (18,8%) e dalla Valle d’Aosta (17,1%). A livello provinciale, la classifica è guidata dalla provincia di Napoli con 576mila persone che vivono in aree ad alto rischio, seguita da Torino e Roma, rispettivamente con 326mila e 216mila persone. Per il presidente di Legambiente, Vittorio Cogliati Dezza (foto a sinistra): “È la manutenzione del territorio la più grande ed indispensabile infrastruttura di cui il Paese ha assoluto bisogno per poter abbandonare la logica dell’emergenza“. 

Per pianificare e programmare le politiche territoriali, però, è fondamentale considerare gli effetti dei cambiamenti climatici per cui i fenomeni metereologici intensi hanno perso la loro eccezionalità per diventare sempre più frequenti, come confermano i dati Ispra (Annuario dei dati ambientali 2011, Ispra 2012) relativi alla quantità di pioggia caduta nei principali eventi alluvionali dal 2009 ad oggi. Ad esempio, negli eventi alluvionali della Toscana del 2010 e 2011, in una sola giornata, la quantità di pioggia caduta sul suolo è stata pari a circa il 40% delle precipitazioni medie annue della regione, così come in Liguria la quantità di pioggia caduta nelle due giornate più critiche del 2011 ha superato il 65% della piovosità media annua della regione. I dati disponibili dal 1948 al 2011, inoltre, mostrano come le regioni colpite siano raddoppiate negli ultimi dieci anni (da quattro a otto).

Molti di questi eventi piovosi sono “celle temporalesche autorigeneranti” che si attivano rapidamente nei periodi di transizione delle stagioni e colpiscono soprattutto le aree costiere caratterizzate da barriere morfologiche che si elevano ripidamente dal livello marino fino ad oltre 1000 metri di altezza. La loro pericolosità è nota da sempre e l’Italia è per sua natura molto esposta a questo tipo di fenomeni. Le ricerche eseguite negli ultimi anni nelle zone devastate dalle numerose alluvioni lampo, dimostrano che dall’inizio della pioggia fino all’innesco di frane, piene e dissesti vari passano dai 15 ai 120 minuti: un lasso di tempo fondamentale per salvaguardare le vite umane. Il piano di prevenzione deve, infine, contrastare l’abusivismo e l’urbanizzazione selvaggia. Quando si verificano eventi piovosi violenti la natura manifesta la propria potenza e si riappropria degli spazi necessari per smaltire i flussi eccezionali secondo le leggi che governano i fenomeni naturali a cui appartengono, appunto, anche gli eventi eccezionali. 


È evidente, quindi, che il principale sistema di prevenzione sta nella sapienza di chi decide i piani di urbanizzazione e dei costruttori, che dovrebbero sempre tener conto degli spazi periodicamente “reclamati” dai fenomeni naturali. Molte aree sono state spesso urbanizzate fino al contatto con gli alvei fluviali e torrentizi (quest’ultimi, addirittura, sovente sono stati ricoperti e trasformati in strade).

In Liguria, per esempio, i crinali delle montagne sono ormai ricoperti di cemento e nudi per i troppi incendi così, quando le piogge sono intense, l’acqua dall’alto delle colline arriva al mare in pochissimi minuti con una forza terrificante. Questa pianificazione urbanistica miope ha permesso di costruire nuovi quartieri senza pensare alla pulitura e a incanalare i rivi e i torrenti, così come dopo gli incendi, le amministrazioni non si sono curate di ri-infoltire la vegetazione delle colline. I risultati di tale politica sono devastazione e perdita di vite umane: ecco perché spesso i geologi e gli esperti parlano di “disastri annunciati”. 
Per Cogliati Dezza: “Serve un Piano nazionale che preveda un’azione urgente ed efficace che stabilisca strumenti e priorità d’intervento e formuli una nuova proposta di gestione del territorio. Per questo è necessario il coinvolgimento di tutti i soggetti portatori d’interesse: la comunità scientifica, gli esperti, gli enti competenti, le amministrazioni locali interessate, il mondo dell’agricoltura, le associazioni ambientaliste e i cittadini che vivono nei territori a rischio. Inoltre, la manutenzione del territorio assume un ruolo cruciale, soprattutto se tradotta in presidio territoriale svolto dalle Comunità locali. Infine, si dovrà applicare una politica attiva di “convivenza con il rischio”, sistemi di previsione delle piene e di allerta e piani di protezione civile aggiornati, testati e conosciuti dalla popolazione“. “Penso che i tempi tecnici per l’avvio del Piano nazionale per la manutenzione e la messa in sicurezza del territorio dai rischi idrogeologici e sismici possano non essere brevi, data l’esigenza di conseguire il concorso regionale – ha affermato il viceministro delle Infrastrutture e dei Trasporti, Mario Ciaccia (foto a destra) – mi sentirei, quindi, di suggerire uno strumento ausiliario che possa fare da scintilla per accendere subito i motori del Piano. Un tale effetto si potrebbe ottenere facendo direttamente leva sulle unità elementari del territorio chiamate a svolgere la parte operativa degli interventi, cioè i comuni, aggiungendo un ulteriore stimolo rispetto alla già molto utile riduzione dei vincoli del Patto di stabilità, ossia l’assegnazione ai comuni di ulteriori risorse da reperire tra le pieghe dell’intero bilancio statale“. 


Il viceministro, per quanto riguarda l’avvio del Piano, immagina “una sorta di Cabina di regia, da porsi nell’ambito del ministero dell’Ambiente e composta da rappresentanti dei vari livelli di governo interessati. La Cabina di regia potrebbe avere il compito di selezionare, sulla base di criteri predefiniti, i comuni che presenteranno i loro progetti di intervento”. Questo è fondamentale, perché al di là dell’auspicabile eliminazione dei vincoli del Patto di stabilità, è da ricordare che i comuni con le loro scelte urbanistiche prive di una lettura territoriale di area vasta, sono i massimi responsabili dei danni consumati ai danni dell’ambiente. Per il ministro Corrado Clini, la realizzazione di una cabina di regia “è una buona idea, ma prima bisogna capire come fare, altrimenti i registi senza copione fanno fatica a lavorare”.

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