Se non si attuano immediatamente adeguate misure di riduzione delle emissioni, l’aumento della temperatura media globale potrebbe, entro la fine di questo secolo, superare i 4°C, rispetto ai livelli preindustriali.
30/04/2014
- Vincenzo Ferrara
I cambiamenti del clima sono evidenti dappertutto nel mondo: la temperatura media globale, e le diverse temperature medie regionali e locali sono in aumento, i ghiacci polari, soprattutto quelli artici, sono in fase di rapida fusione, gli eventi estremi come le tempeste e le alluvioni sono più intensi e più frequenti, così sono in aumento i periodi di siccità e i fenomeni di aridificazione e di desertificazione. Ma, tutto ciò non è una novità. Lo sapevamo da tempo. L’ultimo rapporto IPCC (Intergovernmental Panel on Climate Change), costituito da tre parti distinte, non solo lo conferma con dovizie di dettagli, ma espone anche quali sono i possibili rischi per le popolazioni e per i territori più vulnerabili e come affrontarli per prevenire le peggiori conseguenze.
Nella prima parte del rapporto IPCC, che riguarda le basi scientifiche del clima e che è stato pubblicato alla fine di settembre 2013, oltre al quadro dei cambiamenti in atto, è chiaramente sottolineato il fatto che le cause di questi cambiamenti non sono naturali, ma derivano dalle attività antropiche particolarmente inquinanti dopo la rivoluzione industriale e in particolare in questi ultimi 40 anni. La seconda parte del rapporto IPCC, che riguarda gli impatti, la vulnerabilità e l’adattamento, pubblicato alla fine di marzo 2014, ci avverte, invece, che una serie di impatti negativi (come la riduzione delle risorse idriche, l’acidificazione degli oceani, l’innalzamento del livello del mare con perdita di zone basse costiere, le modifiche delle caratteristiche dei suoli e del territorio, ecc.) sono ormai presenti sia sui sistemi naturali, dove molti ecosistemi si sono già modificati, sia sui sistemi umani, dove il cambiamento del clima sta riducendo la sicurezza sanitaria (la trasmissione di alcune malattie infettive è aumentata), e la sicurezza alimentare (la produzione agroalimentare mostra già casi di crisi per scarsità di cibo e per aumenti del prezzo dei prodotti agricoli). Diventa, quindi, urgente affrontare la pianificazione territoriale e lo sviluppo socio-economico in modo tale da tener prevenire le conseguenze negative e i futuri danni dei cambiamenti climatici, preparandosi nel contempo ad adattarsi alle nuove situazioni ambientali e territoriali.
Ma, solo nell’ultima parte del rapporto IPCC, che riguarda la mitigazione dei cambiamenti climatici, pubblicato poco prima della Pasqua 2014, risuona forte un vero e proprio campanello di allarme, contro l’inerzia con cui si sta affrontando il problema dei cambiamenti climatici, sottovalutati e considerati secondari rispetto ad altre priorità.
Le emissioni globali di anidride carbonica e di altri gas serra hanno raggiunto livelli senza precedenti nella storia dell’umanità. Sono quantitativi prossimi a 50 miliardi di tonnellate per anno, che provengono per il 78% dall’utilizzo dei combustibili fossili e che si accumulano sempre di più nell’atmosfera. Le emissioni, infatti, sono a un livello triplo rispetto alle capacità del nostro pianeta di poterle riassorbire attraverso i processi naturali di fotosintesi e di trasformazione in biomassa dei sistemi vegetali terrestri e marini. La situazione si è particolarmente aggravata negli ultimi decenni. In soli 40 anni, tra il 1970 ed il 2010, è stata emessa in atmosfera una massa di gas serra pari alla quantità totale di gas serra emessi complessivamente nell’arco dei 220 anni precedenti (cioè tra il 1750 e il 1970). L’aumento maggiore delle emissioni inquinanti (circa il 50%) è causato dal settore energetico, l’aumento delle emissioni causato dal settore industriale si aggira attorno ad un terzo e il resto deriva quasi tutto dai trasporti.
Se non si attuano immediatamente adeguate misure di riduzione delle emissioni, per riportare il ciclo del carbonio in equilibrio e stabilizzare il clima terrestre, l’aumento della temperatura media globale potrebbe, entro la fine di questo secolo, superare i 4°C, rispetto ai livelli preindustriali o attestarsi, comunque, tra 3.7 °C e 4.8°C. Se, poi, si tiene conto dei possibili errori e delle incertezze delle valutazioni in queste proiezioni, l’intervallo effettivo di aumento della temperatura media globale al 2100 potrebbe andare da un minimo di 2.5°C a un massimo di ben 7.8°C.
Ma, non è tanto l’entità dell’aumento della temperatura che preoccupa IPCC, quanto la velocità con cui questo aumento potrebbe verificarsi: ben 4°C in meno di un secolo! Riscaldamenti climatici di questa entità avvenivano normalmente in passato nell’arco di molte migliaia e di decine di migliaia di anni. Una così elevata velocità di cambiamento del clima non permette alcun adattamento naturale dei sistemi viventi e potrebbe portare, quindi, a conseguenze imprevedibili, come perdite catastrofiche della biodiversità o il collasso di molti ecosistemi da cui dipende la stessa sopravvivenza del genere umano. Sono previsioni molto più pessimistiche del precedente rapporto IPCC del 2007, contrariamente a quanto è stato purtroppo divulgato dalla propaganda negazionista dei cambiamenti del clima.
In questo contesto, il solenne impegno assunto nel 2009 a Copenhagen e riaffermato a Cancún nel 2010 dai 192 Paesi delle Nazioni Unite di contenere il surriscaldamento globale entro il massimo di 2°C entro il 2100, diventa molto difficile da conseguire e, comunque, a condizioni molto impegnative. Sarà possibile, infatti, solo se si tagliano da subito le emissioni globali attuali fino al 70% entro l’anno 2050. Poi, dopo il 2050, si deve procedere con ulteriori tagli fino a raggiungere l’azzeramento totale di tutte le emissioni di gas serra prima del 2100.
Questo significa, in pratica, che andranno eliminati totalmente i combustibili fossili entro i prossimi decenni. Un’eliminazione che non dovrebbe essere difficile da attuare se si eliminassero gli ingenti sussidi ai combustibili fossili che li rendono appetibili e competitivi. Infatti, non tutti sanno che ogni anno vengono complessivamente elargiti, dai diversi governi nazionali, più di 520 miliardi di dollari di sussidi ai combustibili fossili, cioè ben sei volte di più di quanto gli stessi governi nazionali spendono in incentivi a sostegno delle energie rinnovabili. A parte la questione dei cambiamenti climatici, l’eliminazione dei combustibili fossili non costituisce, in realtà, un problema, ma una concreta opportunità di sviluppo economico pulito ed efficiente, durevole, oltre che ambientalmente e socialmente sostenibile, basato principalmente sull’innovazione tecnologica continua e l’uso di tecnologie sempre più avanzate.
La domanda che ci poniamo è: come mai, con informazioni scientifiche sul clima e i cambiamenti climatici sempre più precise e più avanzate, non si scelgono né si attuano azioni operative consensualmente condivise tra i politici, le imprese, le istituzioni pubbliche e private e le forze sociali. Come mai la voce degli scienziati rimane ancora una “vox clamantis in deserto”. Il negoziato delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici non fa passi avanti da almeno 5 anni (cioè dal fallimento della Conferenza di Copenhagen del 2009) ed ora è in attesa di imprecisati impegni da discutere a Parigi nel 2015 e poi, forse da attuare, ma solo dopo il 2020. E’ vero che ci sono alcuni avvenimenti internazionali, anche gravi, come la crisi economica, le crisi politico-sociali come quelle della Siria e dell’Ucraina, le instabilità politiche di alcuni paesi asiatici e africani, ecc. Ma si tratta di problemi contingenti e di breve periodo. Dimenticare l’esistenza di problemi di lungo periodo, come i cambiamenti del clima, significa mettere in serio rischio non tanto il futuro del nostro pianeta che non dipende certo dalla presenza o assenza degli esseri umani, quanto la qualità della vita e, perfino, la sopravvivenza delle future generazioni.
I delegati al negoziato delle Nazioni Unite, prima della scadenza del protocollo di Kyoto hanno vanificato tutte le iniziative per il proseguimento o il rinnovo del protocollo di Kyoto, hanno fatto poi scadere il protocollo di Kyoto in vista di nuovi più ambiziosi accordi ed ora, anno dopo anno, passano il tempo discutendo mille cavilli e questioni giuridiche di diritto internazionale oppure polemizzando su formalismi bizantini, senza mai affrontare il problema di base per fermare i cambiamenti del clima, e cioè quello di un taglio drastico delle emissioni di gas serra per riportare il sistema climatico in equilibrio. Ma, il problema non è nell’incapacità dei negoziatori a giungere a una qualche soluzione concreta. Loro (i negoziatori) hanno avuto il mandato di discutere, non di risolvere i problemi, perché le soluzioni sono politiche “ad alto livello”. E il problema non è neanche politico “ad alto livello”: il vero problema è nella forza politica che hanno molti gruppi di potere internazionali capaci di condizionare le decisioni politiche “ad alto livello” affinché non si arrivi al taglio delle emissioni, almeno nei prossimi decenni o anche nel prossimo secolo se il “business” dei combustibili fossili e dei prodotti petroliferi, compresi i lauti sussidi di cui godono i combustibili fossili, dovesse continuare a rimanere redditizio. Inoltre, se non si usassero più i combustibili fossili, cambierebbero gli equilibri geopolitici e le forze egemoniche su cui si fondano i delicati rapporti internazionali. Se è vero che la transizione fra un mondo basato sui combustibili fossili e un mondo esente dai combustibili fossili non può essere traumatica, è altrettanto vero che i tempi imposti dai cambiamenti del clima non sono più compatibili con i tempi della politica o dei tempi necessari per la transizione degli equilibri geopolitici ed egemonici internazionali.
Mentre il negoziato internazionale langue, l’Europa, almeno in campo climatico ed energetico-ambientale, sta dando una lezione di speranza. Molte soluzioni contro i cambiamenti del clima, anche se parziali e insufficienti, vanno avanti a livello volontario di singoli paesi, ma soprattutto dalla comunità dei Paesi dell’Unione Europea. Dai dati delle Nazioni Unite risulta che in 60 dei 192 paesi aderenti alle Nazioni Unite, tra cui tutti i paesi dell’Unione Europea, sono state approvate leggi che direttamente o indirettamente concorrono a mitigare i cambiamenti del clima, per esempio attraverso gli incentivi alle fonti rinnovabili, la promozione del risparmio energetico e dell’uso efficiente dell’energia, il sostegno alla ricerca scientifica e all’innovazione tecnologica in campo energetico e ambientale, ecc.
I grandi inquinatori mondiali (tra cui USA, Cina, India, Russia e altri) non fanno però, parte di questo gruppo di paesi. Dunque, lo sforzo compiuto dall’Unione Europea è insufficiente e, dal punto di vista pratico, non è ovviamente in grado di frenare i cambiamenti del clima. Non irrilevante, invece, è la grande lezione di equità verso le future generazioni, oltre che la grande lezione di etica e di responsabilità che proviene dall’Europa per il resto del mondo, ma soprattutto verso quella parte dell’umanità che trova difficoltà a guardare oltre i confini del proprio angusto giardino o che si rispecchia narcisisticamente solo nei propri egoismi faziosi.