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È tutto “Green” quello che luccica?***

Lavori verdi, energia, alimenti, cosmetici: attenzione alle false credenze

Simona Mingolla

Dall’alimentazione allo stile di vita, dall’energia ai posti di lavoro: ormai è tutto verde e ciò che è verde “è cosa buona e giusta”! Basta apporre i prefissi eco o green ed anche bio e il mondo cambia. Sarà proprio così o anche il “green” cela qualche “opacità” che lo rivela poi non così positivo o per lo meno con criticità da tenere sotto controllo per evitare che nel lungo periodo i suoi effetti siano “noir”? Per esempio, nel campo dell’occupazione, ormai si grida a gran voce che la green-economy produrrà milioni di nuovi posti di lavoro (i cosiddetti “green jobs”), soprattutto nel campo delle nuove tecnologie legate alle energie rinnovabili. 


Lo disse anche Obama in Ohio, in un suo discorso, il 16 gennaio 2009. Sarà vero? È noto che l’Unione Europea è a più alta concentrazione di energie rinnovabili rispetto al resto del mondo: in particolare, Germania e Spagna guidano la graduatoria. Ricordo che in Europa è dal 1997, con il primo libro bianco “Energy for the future: renewable sources of energy” che si dà il via alla cascata di sussidi per le energie da fonti rinnovabili e all’obiettivo (oltre che dell’abbattimento delle emissioni antropiche) di creare ulteriori posti di lavoro e nuovi settori nell’industria.

I numeri che circolavano, allora, erano pari a 500.000/900.000 posti di lavoro in più senza, però, alcun approccio critico a questa previsione in altri termini, nessuno si è mai chiesto se la creazione di quei nuovi posti di lavoro avvenisse a scapito di altre occupazioni (per esempio nell’industria pesante) per i motivi più disparati: cambio di strategie politiche nazionali o aziendali, riduzione/eliminazione dei sussidi, crescita della pressione fiscale sui settori più inquinanti. Tali dubbi sono stati ignorati al punto che ad oggi quando si parla di green-economy, pare si indichi la panacea e quell’incremento di posti lavorativi è addirittura passato a cifre straordinarie: lo sosteneva persino Josè Manuel Barroso, il 23 gennaio 2008, “[the proposal is] an opportunity that should create thousands of new businesses and millions of jobs in Europe. We must grasp that opportunity”.

A questo punto è interessante citare uno studio condotto e pubblicato presso la “Universidad Rey Juan Carlos”, intitolato “Study of the effects on employment of public aid to renewable energy sources” in cui i ricercatori si sono concentrati sulla Spagna, ma sostengono che la struttura dei costi e i meccanismi di finanziamento pubblico rendano tali conclusioni applicabili anche in altri contesti. Loro, nello scomporre i nuovi posti di lavoro, scoprono che il 66% dell’occupazione totale nella green-economy è costituito da installatori, costruttori, impiantisti il 25% ricopre ruoli amministrativi e il restante 10% riguarda l’operatività degli impianti per la produzione di elettricità da fonti rinnovabili. 

Di fatto un po’ poco sia per gridare alla rivoluzione, sia rispetto all’immane flusso di denaro messo in atto. Infatti, secondo lo studio, nel 2000 la Spagna ha speso l’equivalente di mezzo milione di euro per la creazione di ogni singolo posto di lavoro nella green-economy (non dimentichiamo che alla spesa va sommata anche la relativa perdita di posti di lavoro nella old economy: 2.2 per l’esattezza). 


In più, la Spagna nel periodo 2000-2008 ha sostenuto costi aggiuntivi per la “modica” cifra di ulteriori circa 8 miliardi di euro, ossia degli “extra” dovuti ai sussidi governativi che vanno ad aggiungersi al costo medio di mercato dell’energia proveniente da fonti rinnovabili. Ovvio che le spese extra per sussidi, si riverseranno sul contribuente o tramite maggiori tasse o tramite un maggior costo della corrente elettrica (si stima almeno il 31% in più).

Dunque, emerge che un green-job ha un costo economico e sociale non indifferente, e nel caso specifico della Spagna viene confermato in un periodo, l’ultimo decennio, in cui questo Paese ha goduto di fortissime spinte a livello economico ed occupazionale. La domanda è: in nazioni con un debito pubblico stratosferico, come e quanto sarà possibile affrontare la riconversione del comparto energetico. 


Chi pagherà, alla fine (e non solo in termini monetari)? Il tema è delicato, ragion per cui farsi prendere dal “green-entusiasmo” è quanto di più sbagliato si possa fare, al punto che la stessa European Trade Union Confederation ha ammonito la Ue dal farsi prendere troppo la mano e, invece, di valutare attentamente la situazione occupazionale, poiché il rischio concreto è che gli strumenti utilizzati per combattere il cambiamento climatico finiscano col distruggere l’occupazione tradizionale. Parlando del settore energetico, spezziamo una lancia a favore del green, nel senso che circolano ancora molte “leggende metropolitane”.

A tal proposito citiamo il libro uscito in Gran Bretagna alla fine del 2008, ma ancora attuale, “Ten technologies to save the planet”, scritto da Chris Goodall, esperto di energie rinnovabili, che illustra i “miti da sfatare” sulle rinnovabili. Parte dall’energia solare: non è vero che è troppo costosa per essere usata in modo ampio e diffuso. I pannelli solari odierni, grossi e costosi, catturano solo il 10% circa dell’energia del sole, ma rapide innovazioni in corso negli Stati Uniti segnalano che una nuova generazione di pannelli solari assai più sottili ed economici potranno catturare molta più energia.

Aziende, in Spagna e in Germania, stanno sperimentando nuovi sistemi per catturare i raggi del sole, con risultati incoraggianti per cui l’Europa potrebbe un giorno ricavare gran parte del proprio fabbisogno elettrico da stazioni di pannelli solari nel deserto del Sahara. “Gli impianti eolici sono inaffidabili”: falso! In Spagna, ad esempio, essi producono, in certi periodi dell’anno, il 40% del fabbisogno energetico del paese.

L’energia eolica, inoltre, è sempre più a buon mercato: Goodall stima che il 30% circa della richiesta di energia del pianeta potrebbe essere soddisfatta dall’eolico. Non è neppure vero che l’energia tratta dalle correnti marine non porti da nessuna parte: in Irlanda del Nord e in Portogallo hanno cominciato a funzionare i primi generatori a turbina che sfruttano le onde. Lo stesso Regno Unito condivide con Canada, Sud Africa e parte del Sud America la migliore energia marina del mondo e, secondo Goodall se ci fossero più finanziamenti a suo sostegno questa tecnologia potrebbe mostrare tutte le sue potenzialità.

L’energia nucleare è meno costosa delle altre fonti energetiche per produrre elettricità: falso, poiché se si considerano, al di là dei costi per la produzione in sé, anche quelli per la costruzione degli impianti e di smaltimento delle scorie, ecco che le cifre lievitano inesorabilmente. Tant’è che Goodall suggerisce piuttosto la tecnologia del “carbone pulito”, che ha costi più controllabili e che, grazie alla ricerca, riesce a produrre sempre meno Co2.È che dire delle auto elettriche? Per molti sono brutte e lente: falso, ormai sono veloci, belle e avranno presto batterie al litio, in grado di ricaricarle economicamente e rapidamente. Non a caso Danimarca e Israele intendono utilizzare solo auto elettriche, in futuro.

C’è la credenza che i biocarburi (come l’etanolo) siano sempre distruttivi per l’ambiente: non è così, poiché non per tutti i biocarburanti si distruggono ettari di foresta. Goodall ricorda, ad esempio, che si possono fabbricare biocarburanti dagli scarti agricoli, senza dar vita a coltivazioni apposite: è una questione di scelte. Per quel che riguarda le innovative case a “zero emissioni di carbonio”, è vero che sono una priorità, ma molto costosa: meglio puntare sulla riduzione delle emissioni delle case esistenti, come si fa in Germania. Si crede poi che le stazioni elettriche debbano essere grandi per essere efficienti: il futuro invece sarà delle microstazioni. È opinione comune, infine, che tutte le soluzioni ai problemi energetici debbano essere ad alta tecnologia, ma spesso costano troppo.

Per cui non bisogna disdegnare la bassa tecnologia e Goodall cita, ad esempio, la pratica del biochar per l’agricoltura, la produzione di carbone attraverso un processo di pirolisi a bassa temperatura, usato poi in agricoltura come fertilizzante. Si tratta di una soluzione low-tech, ma secondo l’autore molto efficace per stoccare CO2. Infine, sempre in tema di “false credenze” voglio chiudere parlando di agricoltura biologica e suoi derivati in quanto, per esempio, molti credono ancora che i prodotti biologici siano di qualità inferiore rispetto ad alimenti e bevande convenzionali. Falso: gli alimenti biologici sono prodotti con gli stessi standard di sicurezza degli altri alimenti e aderiscono alla legislazione europea generale sugli alimenti.

La differenza è che, anziché usare prodotti fitosanitari per combattere parassiti o erbe infestanti, si usano la rotazione delle culture, la lotta biologica e si selezionano colture resistenti per evitare problemi. E invece di usare conservanti e aromi aggiunti, gli agricoltori biologici e gli addetti alla trasformazione cercano di mantenere il prodotto il più fresco possibile concentrandosi nella produzione di prodotti a carattere stagionale e regionale e sui mercati locali.

Alcuni consumatori sostengono che i cibi biologici hanno un sapore migliore, anche se diversi studi all’interno dell’Ue sull’analisi del sapore relativo dei cibi biologici e non biologici non evidenziano alcuna prova decisiva per supportare tali affermazioni. D’altronde, gli agricoltori e i produttori biologici non sostengono che i propri prodotti hanno un sapore migliore degli altri, ma solo che hanno un sapore genuino perché realizzati in maniera naturale.

Il fatto che i prodotti biologici costino più degli altri alimenti e bevande è non solo vero, ma anche ovvio a causa di tempi di produzione più lunghi, del fatto che i prodotti biologici richiedono maggior lavoro e attenzione nella separazione del prodotto, scarse economie di scala nella trasformazione e nella distribuzione, ferrei controlli e certificazioni nella produzione biologica. Quindi, i produttori del biologico devono scaricare sui consumatori costi più elevati a causa della catena di distribuzione affinché produrre sia per loro economicamente sostenibile.

Detti costi, tuttavia, dovrebbero essere considerati come il prezzo per la qualità del prodotto che è stato realizzato secondo principi auspicabili come: la protezione ambientale, il benessere degli animali e un miglioramento sociale ed economico. C’è chi sostiene che “l’agricoltura biologica è meno produttiva di altri sistemi e necessita di più terra”: in realtà gli esperti non sono arrivati ad univoche conclusioni a riguardo. Uno studio spesso citato che trova un livello simile di produttività tra i due sistemi è il report dell’Università di Cornell negli Stati Uniti condotto in una fattoria sperimentale del Rodale Institute.

Questa ricerca ha scoperto che, dopo un periodo di 22 anni, l’agricoltura biologica ha prodotto la stessa quantità di frumento e soia paragonata all’agricoltura convenzionale, ma ha usato il 30% in meno di energia, meno acqua e nessun fitofarmaco. Infine, passando sul fronte dei cosmetici, basta una confezione verde o un nome preceduto dal prefisso bio per essere sicuri che la nostra crema di bellezza sia naturale?Se la risposta per il consumatore attento è no, per gli altri portiamo a conoscenza di una ricerca inglese condotta dall’Organic Monitor ed intitolata “Natural Cosmetics Brand Assessment”. Essa prende in esame 50 prodotti di marca che si definiscono naturali o biologici, analizzandone gli ingredienti e assegnando loro un punteggio in base a criteri scientifici di “naturalità”.

I criteri di valutazione indicavano con 9-10 punti le marche certificate biologiche, con 4-7 punti i cosmetici naturali puri, con 3 i cosmetici semi naturali, con 1 quelli convenzionali: si è scoperto che molti dei cosmetici promossi come naturali o addirittura biologici hanno (purtroppo!) ottenuto i punteggi più bassi. In particolare, alcuni marchi promuovevano i loro cosmetici per la pelle come biologici solo perché la formula conteneva oli essenziali bio. Altri mettevano il marchio della certificazione biologica sulla scatola avendo in realtà certificato solo l’ingrediente principale. Alcuni addirittura definivano biologici i cosmetici solo perché alcuni ingredienti erano naturali (e comunque non certificati).

Una babele di false etichette, detti e non detti, suggestioni senza riscontro che se da un alto non tutela i consumatori, dall’altro limita anche le possibilità di crescita del settore dove le truffe sono ormai all’ordine del giorno.E quest’ultimo fenomeno dovrebbe essere legalmente arginato con urgenza. Infatti, se si considera che alla base dell’acquisto di un “prodotto organico” e a “km 0” c’è la consapevolezza dell’ecosostenibilità e dell’eticità legate alla propria scelta, certificazioni e bollini vari danno una sicurezza in più, ma alla base c’è la fiducia nell’aver acquistato un qualcosa che ci farà bene perché è stato e allevato con parametri precisi e nel pieno rispetto dell’ambiente.

Tutelare questi prodotti e perseguire con forza le contraffazioni non può fare che accrescere la disponibilità della gente, anche in tempi di crisi economica profonda come questi, al loro acquisto, seppur costi di più. Questo è importante, dal momento che il mercato del bio è il solo a non aver subito contrazioni negli ultimi anni, con un trend inverso rispetto al resto del mercato alimentare e della cura della persona

Dall’alimentazione allo stile di vita, dall’energia ai posti di lavoro: ormai è tutto verde e ciò che è verde “è cosa buona e giusta”! Basta apporre i prefissi eco o green ed anche bio e il mondo cambia. Sarà proprio così o anche il “green” cela qualche “opacità” che lo rivela poi non così positivo o per lo meno con criticità da tenere sotto controllo per evitare che nel lungo periodo i suoi effetti siano “noir”? Per esempio, nel campo dell’occupazione, ormai si grida a gran voce che la green-economy produrrà milioni di nuovi posti di lavoro (i cosiddetti “green jobs”), soprattutto nel campo delle nuove tecnologie legate alle energie rinnovabili. 

Lo disse anche Obama in Ohio, in un suo discorso, il 16 gennaio 2009. Sarà vero? È noto che l’Unione Europea è a più alta concentrazione di energie rinnovabili rispetto al resto del mondo: in particolare, Germania e Spagna guidano la graduatoria. Ricordo che in Europa è dal 1997, con il primo libro bianco “Energy for the future: renewable sources of energy” che si dà il via alla cascata di sussidi per le energie da fonti rinnovabili e all’obiettivo (oltre che dell’abbattimento delle emissioni antropiche) di creare ulteriori posti di lavoro e nuovi settori nell’industria.

I numeri che circolavano, allora, erano pari a 500.000/900.000 posti di lavoro in più senza, però, alcun approccio critico a questa previsione in altri termini, nessuno si è mai chiesto se la creazione di quei nuovi posti di lavoro avvenisse a scapito di altre occupazioni (per esempio nell’industria pesante) per i motivi più disparati: cambio di strategie politiche nazionali o aziendali, riduzione/eliminazione dei sussidi, crescita della pressione fiscale sui settori più inquinanti.

Tali dubbi sono stati ignorati al punto che ad oggi quando si parla di green-economy, pare si indichi la panacea e quell’incremento di posti lavorativi è addirittura passato a cifre straordinarie: lo sosteneva persino Josè Manuel Barroso, il 23 gennaio 2008, “[the proposal is] an opportunity that should create thousands of new businesses and millions of jobs in Europe. We must grasp that opportunity”.


A questo punto è interessante citare uno studio condotto e pubblicato presso la “Universidad Rey Juan Carlos”, intitolato “Study of the effects on employment of public aid to renewable energy sources” in cui i ricercatori si sono concentrati sulla Spagna, ma sostengono che la struttura dei costi e i meccanismi di finanziamento pubblico rendano tali conclusioni applicabili anche in altri contesti. Loro, nello scomporre i nuovi posti di lavoro, scoprono che il 66% dell’occupazione totale nella green-economy è costituito da installatori, costruttori, impiantisti il 25% ricopre ruoli amministrativi e il restante 10% riguarda l’operatività degli impianti per la produzione di elettricità da fonti rinnovabili. 

Di fatto un po’ poco sia per gridare alla rivoluzione, sia rispetto all’immane flusso di denaro messo in atto. Infatti, secondo lo studio, nel 2000 la Spagna ha speso l’equivalente di mezzo milione di euro per la creazione di ogni singolo posto di lavoro nella green-economy (non dimentichiamo che alla spesa va sommata anche la relativa perdita di posti di lavoro nella old economy: 2.2 per l’esattezza). 

In più, la Spagna nel periodo 2000-2008 ha sostenuto costi aggiuntivi per la “modica” cifra di ulteriori circa 8 miliardi di euro, ossia degli “extra” dovuti ai sussidi governativi che vanno ad aggiungersi al costo medio di mercato dell’energia proveniente da fonti rinnovabili. Ovvio che le spese extra per sussidi, si riverseranno sul contribuente o tramite maggiori tasse o tramite un maggior costo della corrente elettrica (si stima almeno il 31% in più). Dunque, emerge che un green-job ha un costo economico e sociale non indifferente, e nel caso specifico della Spagna viene confermato in un periodo, l’ultimo decennio, in cui questo Paese ha goduto di fortissime spinte a livello economico ed occupazionale. La domanda è: in nazioni con un debito pubblico stratosferico, come e quanto sarà possibile affrontare la riconversione del comparto energetico. 


Chi pagherà, alla fine (e non solo in termini monetari)? Il tema è delicato, ragion per cui farsi prendere dal “green-entusiasmo” è quanto di più sbagliato si possa fare, al punto che la stessa European Trade Union Confederation ha ammonito la Ue dal farsi prendere troppo la mano e, invece, di valutare attentamente la situazione occupazionale, poiché il rischio concreto è che gli strumenti utilizzati per combattere il cambiamento climatico finiscano col distruggere l’occupazione tradizionale. Parlando del settore energetico, spezziamo una lancia a favore del green, nel senso che circolano ancora molte “leggende metropolitane”.

A tal proposito citiamo il libro uscito in Gran Bretagna alla fine del 2008, ma ancora attuale, “Ten technologies to save the planet”, scritto da Chris Goodall, esperto di energie rinnovabili, che illustra i “miti da sfatare” sulle rinnovabili. Parte dall’energia solare: non è vero che è troppo costosa per essere usata in modo ampio e diffuso.

I pannelli solari odierni, grossi e costosi, catturano solo il 10% circa dell’energia del sole, ma rapide innovazioni in corso negli Stati Uniti segnalano che una nuova generazione di pannelli solari assai più sottili ed economici potranno catturare molta più energia. Aziende, in Spagna e in Germania, stanno sperimentando nuovi sistemi per catturare i raggi del sole, con risultati incoraggianti per cui l’Europa potrebbe un giorno ricavare gran parte del proprio fabbisogno elettrico da stazioni di pannelli solari nel deserto del Sahara. “Gli impianti eolici sono inaffidabili”: falso! In Spagna, ad esempio, essi producono, in certi periodi dell’anno, il 40% del fabbisogno energetico del paese.

L’energia eolica, inoltre, è sempre più a buon mercato: Goodall stima che il 30% circa della richiesta di energia del pianeta potrebbe essere soddisfatta dall’eolico. Non è neppure vero che l’energia tratta dalle correnti marine non porti da nessuna parte: in Irlanda del Nord e in Portogallo hanno cominciato a funzionare i primi generatori a turbina che sfruttano le onde. Lo stesso Regno Unito condivide con Canada, Sud Africa e parte del Sud America la migliore energia marina del mondo e, secondo Goodall se ci fossero più finanziamenti a suo sostegno questa tecnologia potrebbe mostrare tutte le sue potenzialità.

L’energia nucleare è meno costosa delle altre fonti energetiche per produrre elettricità: falso, poiché se si considerano, al di là dei costi per la produzione in sé, anche quelli per la costruzione degli impianti e di smaltimento delle scorie, ecco che le cifre lievitano inesorabilmente. Tant’è che Goodall suggerisce piuttosto la tecnologia del “carbone pulito”, che ha costi più controllabili e che, grazie alla ricerca, riesce a produrre sempre meno Co2.È che dire delle auto elettriche? Per molti sono brutte e lente: falso, ormai sono veloci, belle e avranno presto batterie al litio, in grado di ricaricarle economicamente e rapidamente.

Non a caso Danimarca e Israele intendono utilizzare solo auto elettriche, in futuro. C’è la credenza che i biocarburi (come l’etanolo) siano sempre distruttivi per l’ambiente: non è così, poiché non per tutti i biocarburanti si distruggono ettari di foresta. Goodall ricorda, ad esempio, che si possono fabbricare biocarburanti dagli scarti agricoli, senza dar vita a coltivazioni apposite: è una questione di scelte. Per quel che riguarda le innovative case a “zero emissioni di carbonio”, è vero che sono una priorità, ma molto costosa: meglio puntare sulla riduzione delle emissioni delle case esistenti, come si fa in Germania.Si crede poi che le stazioni elettriche debbano essere grandi per essere efficienti: il futuro invece sarà delle microstazioni. È opinione comune, infine, che tutte le soluzioni ai problemi energetici debbano essere ad alta tecnologia, ma spesso costano troppo.

Per cui non bisogna disdegnare la bassa tecnologia e Goodall cita, ad esempio, la pratica del biochar per l’agricoltura, la produzione di carbone attraverso un processo di pirolisi a bassa temperatura, usato poi in agricoltura come fertilizzante. Si tratta di una soluzione low-tech, ma secondo l’autore molto efficace per stoccare CO2. Infine, sempre in tema di “false credenze” voglio chiudere parlando di agricoltura biologica e suoi derivati in quanto, per esempio, molti credono ancora che i prodotti biologici siano di qualità inferiore rispetto ad alimenti e bevande convenzionali. Falso: gli alimenti biologici sono prodotti con gli stessi standard di sicurezza degli altri alimenti e aderiscono alla legislazione europea generale sugli alimenti.

La differenza è che, anziché usare prodotti fitosanitari per combattere parassiti o erbe infestanti, si usano la rotazione delle culture, la lotta biologica e si selezionano colture resistenti per evitare problemi. E invece di usare conservanti e aromi aggiunti, gli agricoltori biologici e gli addetti alla trasformazione cercano di mantenere il prodotto il più fresco possibile concentrandosi nella produzione di prodotti a carattere stagionale e regionale e sui mercati locali.

Alcuni consumatori sostengono che i cibi biologici hanno un sapore migliore, anche se diversi studi all’interno dell’Ue sull’analisi del sapore relativo dei cibi biologici e non biologici non evidenziano alcuna prova decisiva per supportare tali affermazioni.

D’altronde, gli agricoltori e i produttori biologici non sostengono che i propri prodotti hanno un sapore migliore degli altri, ma solo che hanno un sapore genuino perché realizzati in maniera naturale. Il fatto che i prodotti biologici costino più degli altri alimenti e bevande è non solo vero, ma anche ovvio a causa di tempi di produzione più lunghi, del fatto che i prodotti biologici richiedono maggior lavoro e attenzione nella separazione del prodotto, scarse economie di scala nella trasformazione e nella distribuzione, ferrei controlli e certificazioni nella produzione biologica.

Quindi, i produttori del biologico devono scaricare sui consumatori costi più elevati a causa della catena di distribuzione affinché produrre sia per loro economicamente sostenibile. Detti costi, tuttavia, dovrebbero essere considerati come il prezzo per la qualità del prodotto che è stato realizzato secondo principi auspicabili come: la protezione ambientale, il benessere degli animali e un miglioramento sociale ed economico.

C’è chi sostiene che “l’agricoltura biologica è meno produttiva di altri sistemi e necessita di più terra”: in realtà gli esperti non sono arrivati ad univoche conclusioni a riguardo. Uno studio spesso citato che trova un livello simile di produttività tra i due sistemi è il report dell’Università di Cornell negli Stati Uniti condotto in una fattoria sperimentale del Rodale Institute. Questa ricerca ha scoperto che, dopo un periodo di 22 anni, l’agricoltura biologica ha prodotto la stessa quantità di frumento e soia paragonata all’agricoltura convenzionale, ma ha usato il 30% in meno di energia, meno acqua e nessun fitofarmaco.

Infine, passando sul fronte dei cosmetici, basta una confezione verde o un nome preceduto dal prefisso bio per essere sicuri che la nostra crema di bellezza sia naturale? Se la risposta per il consumatore attento è no, per gli altri portiamo a conoscenza di una ricerca inglese condotta dall’Organic Monitor ed intitolata “Natural Cosmetics Brand Assessment”.

Essa prende in esame 50 prodotti di marca che si definiscono naturali o biologici, analizzandone gli ingredienti e assegnando loro un punteggio in base a criteri scientifici di “naturalità”. I criteri di valutazione indicavano con 9-10 punti le marche certificate biologiche, con 4-7 punti i cosmetici naturali puri, con 3 i cosmetici semi naturali, con 1 quelli convenzionali: si è scoperto che molti dei cosmetici promossi come naturali o addirittura biologici hanno (purtroppo!) ottenuto i punteggi più bassi. In particolare, alcuni marchi promuovevano i loro cosmetici per la pelle come biologici solo perché la formula conteneva oli essenziali bio.

Altri mettevano il marchio della certificazione biologica sulla scatola avendo in realtà certificato solo l’ingrediente principale. Alcuni addirittura definivano biologici i cosmetici solo perché alcuni ingredienti erano naturali (e comunque non certificati). Una babele di false etichette, detti e non detti, suggestioni senza riscontro che se da un alto non tutela i consumatori, dall’altro limita anche le possibilità di crescita del settore dove le truffe sono ormai all’ordine del giorno.

E quest’ultimo fenomeno dovrebbe essere legalmente arginato con urgenza. Infatti, se si considera che alla base dell’acquisto di un “prodotto organico” e a “km 0” c’è la consapevolezza dell’ecosostenibilità e dell’eticità legate alla propria scelta, certificazioni e bollini vari danno una sicurezza in più, ma alla base c’è la fiducia nell’aver acquistato un qualcosa che ci farà bene perché è stato e allevato con parametri precisi e nel pieno rispetto dell’ambiente. Tutelare questi prodotti e perseguire con forza le contraffazioni non può fare che accrescere la disponibilità della gente, anche in tempi di crisi economica profonda come questi, al loro acquisto, seppur costi di più. Questo è importante, dal momento che il mercato del bio è il solo a non aver subito contrazioni negli ultimi anni, con un trend inverso rispetto al resto del mercato alimentare e della cura della persona.

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