Ma sulla regolamentazione del settore è battaglia tra industriali e ambientalisti
- Laura Di Rubbo
Lo scorso 11 luglio, la commissione Ambiente del Parlamento Europeo ha approvato una proposta di direttiva che potrebbe costituire il primo vero passo verso l’abbandono progressivo dei biocarburanti convenzionali a favore di quelli di seconda generazione, più sostenibili sia in termini di impatto ambientale che sociale.
La discussione internazionale sulla reale sostenibilità dei biocarburanti di prima generazione, quelli cioè prodotti da coltivazioni alimentari come colza, palma, soia o barbabietola da zucchero, è nata contestualmente al lento iter “legislativo europeo” che ha portato, prima nel 2003 e poi nel 2009, all’emanazione di due direttive europee volte a regolare e sostenere un settore economico che aveva ottenuto grande slancio a livello dei singoli Paesi europei.
Dal 2005 – anno in cui molti Stati europei hanno introdotto l’obbligatorietà della miscelazione di biocarburanti – al 2010, la produzione di biocarburante in Europa è stata esplosiva, arrivando a raggiungere la quota di 9,57 milioni di tonnellate di biodiesel. Un risultato ottenuto grazie ad un mix di obblighi e finanziamenti comunitari e nazionali nei tre settori fondamentali dell’energia, dell’ambiente e dell’agricoltura.
Se già dai primi anni del 2000 i singoli Stati membri avevano avviato progressivamente un processo di conversione dell’agricoltura a favore delle bioenergie, grazie soprattutto alla riforma Mac-Sharry del 1992, che introduce nella Politica Agricola Comune (PAC) l’obbligo di mantenere una certa superficie di terreni non destinati a coltivazioni per uso alimentare (“set-aside land”), bisognerà aspettare il 2003 per avere una regolamentazione a livello comunitario.
In quell’anno verrà, infatti, approvata la direttiva 2003/30/EC, che fissa due target del 2 e del 5,75%, rispettivamente al 2005 ed al 2010, nell’obbligo della miscelazione. Sempre nello stesso anno un’ulteriore riforma della PAC garantisce un incentivo di 45 euro per ogni ettaro destinato a coltivazioni utilizzate per fini energetici. Due anni dopo, più del 95% dei terreni destinati a coltivazioni non alimentari beneficiava di tale incentivo, fornendo così un implicito sostegno finanziario alla produzione di biocarburanti.
Ma è nel 2009 che si avvia la vera spaccatura legislativa tra i pilastri dell’UE. Da un lato, la commissione approva la direttiva 2009/28/EC “Promozione delle energie rinnovabili provenienti da fonti sostenibili” (RED), che si propone di raggiungere il 10% nell’obbligo di miscelazione entro il 2020, e dall’altro, nel gennaio 2009 il Consiglio Europeo promulga una nuova riforma della PAC, eliminando le quote obbligatorie di “set-aside land”. L’eliminazione degli incentivi agricoli, uniti all’obbligo di miscelazione, hanno creato una contrazione della produzione comunitaria e un contestuale aumento delle importazioni di biocarburanti.
Per far fronte alla domanda interna e ottemperare agli obblighi di miscelazione uno Stato come l’Italia, con una superficie agricola riservata alle bioenergie molto limitata, deve ad esempio importare quasi il doppio del biocarburante prodotto (2,5 tonnellate nel 2011) per raggiungere l’obiettivo della miscelazione.
Da qui il cortocircuito, cui ha cercato di porre rimedio, se pur lentamente, prima la Commissione Europea con una proposta di modifica della direttiva RED presentata nell’ottobre del 2012 e ora la commissione Ambiente del Parlamento Europeo, per dimezzare l’obiettivo della miscelazione di biocarburante convenzionale.
Entro il 2020, il 5% del totale del carburante per i trasporti, e non più il 10% come previsto in precedenza, dovrà provenire da biocarburante convenzionale e non meno del 2% da biocarburanti di seconda generazione, quelli derivati da prodotti non alimentari (rifiuti, materiale inerte, ecc).
La proposta del Parlamento è incoraggiante, anche perché recepisce le preoccupazioni avanzate dal mondo scientifico e umanitario rispettivamente, sul problema delle emissioni di gas serra delle coltivazioni di biocarburante convenzionali (ILUC), e su quello delle speculazioni sui prezzi dei prodotti agricoli usati come biocarburanti. In particolare la proposta del Parlamento introduce il fattore ILUC nel conteggio delle emissioni di gas serra a partire dal 2020.
Secondo alcuni studi, se nel conteggio delle emissioni di gas serra si tenesse conto non solo delle emissioni dirette associate alla produzione dei biocarburanti convenzionali ma anche di quelle indirette (Indirect Land Use Change – ILUC), si determinerebbe un peggioramento del livello di emissioni associate alle singole materie prime utilizzate per la produzione di biocarburanti.
L’utilizzo di biocarburanti secondo gli obiettivi del 2020 sarebbe, quindi, responsabile di emissioni equivalenti all’immissione sulle strade europee di un numero aggiuntivo di autovetture per una cifra che oscilla tra i 14 e i 29 milioni di unità.
Gli effetti indiretti sulle emissioni legati al cambio di destinazione d’uso dei terreni (ILUC) si verificano quando, una volta convertito un terreno agricolo per una coltivazione agroenergetica, si affianca la necessità di destinare una superficie di terreno equivalente per le coltivazioni agricole destinate all’alimentazione.
La necessità di trovare terreni per la produzione di bioenergie va quindi a discapito di zone boscose o non coltivate (come praterie, pampas, foreste pluviali, ecc., presenti soprattutto in Paesi del Sud del mondo), che contribuiscono naturalmente a imprigionare la CO2 nel sottosuolo della terra. Disboscando e rendendo adatti alla coltivazione questi terreni, la CO2 imprigionata viene liberata nell’aria, immettendo quindi indirettamente gas a effetto serra nell’atmosfera, proprio come il tubo di scappamento di un motore a scoppio.
I primi timidi passi del Parlamento Europeo verso una reale sostenibilità dei biocarburanti sembra però non aver accontentato nessuno. Da una parte, i ministri di un blocco compatto di Stati membri, supportati dalle industrie del settore, hanno accolto la proposta con freddezza, promettendo anzi battaglia.
Il taglio delle miscelazioni e l’introduzione del fattore ILUC, a loro avviso, infliggerebbero un colpo mortale al settore, in cui negli anni sono finiti milioni di finanziamenti pubblici e che ha creato migliaia di posti di lavoro. Neanche il termine così ampio del 2020 sembra rassicurarli. C’è quindi da credere che quando la proposta della commissione passerà al Consiglio si scatenerà una vera e propria guerra portata avanti dai Paesi del Centro ed Est Europa, apertamente schierati contro la proposta, dai rappresentanti dei settori industriali dei biocarburanti e soprattutto dalle lobby internazionali, che hanno ricavato dal fenomeno del “land grabbing” (accaparramenti di terra condotti in violazione dei diritti umani fondamentali delle persone che vivono su quella terra e senza il loro consenso libero, previo, informato) cospicui ricavi.
Sul fronte opposto, le associazioni ambientaliste e dei diritti umani criticano la proposta come troppo “tenera”. Abbassare l’obiettivo al 5% entro il 2020 e introdurre il fattore ILUC a partire dal 2020 concederà ben 7 anni di tempo per continuare con attività non sostenibili e socialmente inaccettabili.
La commissione Ambiente avrebbe potuto fare di più? Probabilmente sì. La proposta è in ogni caso frutto di una mediazione tra la relatrice Corinne Lepage (DEL) e il PPE (Partito Popolare Europeo), il quale avrebbe preferito diminuire ulteriormente la soglia del 5%. La parola ora passa al Parlamento Europeo, che nella seduta plenaria di settembre a Strasburgo dovrà valutare la proposta approvata dalla commissione Ambiente ed eventualmente modificarla.
Invertire la rotta si può, anche se forse il lentissimo sistema decisionale europeo arriverà a una conclusione quando la maggior parte dei danni sarà già stata fatta e quando ormai anche la seconda generazione di biocarburanti sarà stata scalzata dalla terza generazione, quella dell’energia ricavata dalle alghe, che riducono notevolmente l’uso di risorse preziose, dal momento che possono crescere in zone inutilizzate e coltivate con acque di scarto.