Walter Righini, presidente di Fiper: “Chiediamo alla politica normative chiare”
Walter Righini è il presidente di Fiper, l’associazione che riunisce i gestori delle reti di teleriscaldamento a biomassa legnosa e i produttori di biogas. Un settore che in Italia ha ancora grosse potenzialità di sviluppo: “Lungo l’Appennino e l’arco alpino, ci sono ben 801 comuni che potrebbero utilizzare la biomassa del territorio con reti di teleriscaldamento, creando un indotto interessante per le economie locali“, spiega Righini, che è anche amministratore delegato di TCVVV, la società che gestisce le tre centrali di teleriscaldamento in Valtellina, Valchiavenna e Valcamonica. Un’esperienza, quest’ultima, iniziata nel 2000 e divenuta oggi un’eccellenza italiana.
Presidente, com’è la situazione italiana nel settore delle biomasse?
L’Italia è uno dei paesileader nella costruzione di macchinari per la logistica e trasformazione, la componentistica a fini energetici. Sulla filiera di apparecchi domestici alimentati a biomasse, è il primo Paese per esportazione a livello mondiale. Sul fronte interno, invece c’è ancora un’interessante domanda potenziale da soddisfare.
Secondo uno studio condotto da Fiper, in Italia ci sono ben 80 comuninon metanizzati situati lungo l’Appennino e l’arco alpino, che potrebbero utilizzare la biomassa del territorio con reti di teleriscaldamento, creando un indotto interessante per le economie locali. Il valore dell’investimento, per la costruzione anche solo di 400 impianti, si aggirerebbe tra i 2, e i 4 miliardi di euro nei prossimi cinque anni. Le strutture necessiterebbero dai 3 ai 6 milioni di tonnellate di biomassa legnosaannua, generando un giro d’affari compreso tra i 18 e i 360 milioni di euro, garantito per i prossimi 20-30 anni, per un importo complessivo, nel periodo indicato, di altri circa 5-10 miliardi di euro: investimenti di estremo interesse per la manutenzione e la cura dei nostri boschi.
Ci sono aspetti critici da risolvere?
Purtroppo la politicanon aiuta, anzi! Il maggiore ostacolo allo sviluppo del comparto è dato dalla mancanza di una normativa chiara e stabile nel tempo. I principali nodi da risolvere riguardano la mancanza di una definizione chiara sulla natura del servizio di teleriscaldamento la concorrenza sleale riconosciuta anche dall’Autorità antitrust nel mercato di approvvigionamento della biomassa tra gestori di teleriscaldamento e impianti che producono solo energia elettrica l’impossibilità di diversificare le filiere di approvvigionamento il ritardo nell’emanazione del fondo di garanzia per incentivare e promuovere la realizzazione delle reti di teleriscaldamento, per loro natura molto costose e con tempi lunghi di rientro. Oggi il caso TCVVV rappresenta un modello virtuoso nel campo del teleriscaldamento a biomasse.
Come e quando è nato questo progetto?
Le prime centrali di teleriscaldamento avviate in Valtellina sono state quelle di Tirano e Sondalo nel 2000. Sono nate dalla “scommessa verde” raccolta da un gruppo di imprenditori locali intenzionati a impiegare l’abbondante disponibilità di biomassa presente sul territorio a fini energetici. La dichiarazione rilasciata dal direttore generale dell’assessorato all’Agricoltura, Paolo Baccolo, in occasione del decimo compleanno di TCVVV riassume bene lo spirito pionieristico dell’iniziativa: “Dieci anni fa era una scommessa quasi incredibile, infatti non si era mai visto un progetto come quello che veniva temerariamente presentato da TCVVV alla valutazione degli uffici regionali. Realizzare centrali alimentate a biomassa legnosa e non a combustibili fossili immaginarsi. Costruire reti di teleriscaldamento in piccoliComuni montani figurarsi”. Certo, ingrediente fondamentale è sicuramente stata anche una caparbietà granitica, una certezza assoluta, addirittura una cocciutaggine che solo un progetto nato e realizzato inmontagna, per gli abitanti di montagna, condotto da genti di montagna, poteva avere.
Vi siete ispirati ad altre realtà estere?
I Paesi punto di riferimento per l’avvio del progetto sono stati Austria, Svizzera, Danimarca e Svezia. Una nostra delegazione ha visitato le esperienze pilota all’estero per studiare le tecnologie, la filiera di approvvigionamento, gli effetti ambientali. Anche la realtà altoatesina si è rivelata interessante per capire la relazione diretta tra gestione del territorio e avvio di una centrale di teleriscaldamento. Dalla sua costituzione, la società ha investito in innovazione: è stato il primo impianto di teleriscaldamento a biomassa in Italia che nel 2003 ha installato un modulo co-generativo ORC per la produzione anche di energia elettrica. Nel tempo è diventata un caso studio, oggetto di interesse di diverse delegazioni nazionali ed internazionali provenienti da vari Paesi dei cinque continenti, tra cui Stati Uniti, Giappone, Romania, Canada, Polonia, Argentina. Diverse le collaborazioni con istituti di ricerca anche italiani, tra cui il master RIDEF del Politecnico di Milano e il master CNR sulle biomasse.
Quali sono i benefici ambientali derivati dal teleriscaldamento nelle zone raggiunte da TCVVV?
Innanzitutto la chiusura di oltre 1.200 camini fumanti (caldaie a gasolio o olio combustibile), che significa un risparmio di CO2 annuo di 15-20.000 tonnellate. La sostituzione degli idrocarburi con la biomassa ha permesso di ricominciare ad entrare nei boschi, gestirli, ripulirli in modo tale da prevenire i rischi idrogeologici che negli ultimi anni hanno toccato anche la Valtellina. Gestire correttamente il bosco, attraverso la vendita anche della biomassa residuale, permette di mettere in sicurezza il territorio a costo zero. Credo che questo sia uno degli aspetti ambientali più rilevanti dell’avvio delle centrali di teleriscaldamento.
E i benefici economici?
Una famiglia risparmia in media dal 20% al 30% rispetto al riscaldamento di una caldaia a gasolio, includendo i costi di manutenzione e di ammortamento. Un ulteriore vantaggio economico per la comunità è dato dall’autonomia energetica che si produce a livello locale, senza dipendere dai combustibili fossili di provenienza quasi esclusivamente estera. Inoltre, il teleriscaldamento a biomassa è un esempio concreto di un modello di sviluppo basato sulla gestione del territorio con importanti effetti positivi sull’occupazione. A differenza di altre fonti rinnovabili non programmabili come il vento e il sole, infatti, l’approvvigionamento della biomassa deve essere continuo e programmato nel tempo. In Valtellina attraverso l’avvio delle centrali di teleriscaldamento si sono creati posti di lavoro sia all’interno degli impianti che lungo la filiera a monte. Stanno crescendo sia il numero di aziende boschive sia quello dei loro occupati. Il conferimento della biomassa legnosa presso la centrale permette alle imprese di creare un volano di sviluppo annuale: nei mesi estivi si recupera il legname dai boschi, mentre in autunno e in inverno si provvede allo stoccaggio e alla cippatura. Oggi lavorano in valle dieci cippatrici, fino a pochi anni fa non ce n’era neanche una! Un altro aspetto interessante è l’interesse dei giovani verso questo tipo di impiego: l’età media degli addetti in TCVVV è di 35 anni, con diversi profili: agronomi forestali, ingegneri, geometri, informatici, economisti.
Pochi mesi fa è stato presentato anche un progetto per il recupero e la trasformazione in biomassa delle potature delle viti. A che punto siete?
A maggio scorso abbiamo organizzato una manifestazione per promuovere l’impiego dei sottoprodotti di origine agricola a fini energetici, mostrando alle aziende e ai principali consorzi vitivinicoli italiani che è possibile avvalersi di un cantiere mobile per la produzione di agripellet. Una produzione che può rappresentare una interessante opportunità per il mondo agricolo stimolato ad abbattere i costi di smaltimento delle potature, a ridurre la bolletta del riscaldamento e a diversificare l’attività produttiva. L’Italia grazie alle colture di vite, olivo, frutta, noccioli e mandorli dispone di un potenziale di biomassa legnosa residuale importante in termini di volume, a partire dall’impiego delle potature e degli sfalci: teoricamente parliamo di oltre 5,5 milioni di tonnellate, corrispondenti a quasi 500.000 ettari adibiti a coltivazioni lignocellulosiche. Un potenziale che spesso viene bruciato a bordo campo, perché non esiste una filiera energetica locale in grado di valorizzare questo materiale, creando effetti negativi anche sulla qualità dell’aria. La nostra iniziativa ha riscosso interesse: abbiamo ricevuto una serie di richieste da consorzi vitivinicoli del nord e centro Italia per valutare la fattibilità del cantiere.